Il 19 marzo di ogni anno si festeggia una ricorrenza che affonda le sue radici nella tradizione popolare: la festa di San Giuseppe. Tradizione che, in Molise, viene tramandata di generazione in generazione per mantenerla sempre in vita. Un rito diffuso e sentito in tanti paesi del Molise, compreso Matrice, piccolo paesino in provincia di Campobasso, dove una simpaticissima signora di 93 anni – Antonietta Sbrocca – ci ha aperto la sua casa e ci ha raccontato con enfasi e commozione il rito del culto di San Giuseppe.
Antonietta ci tiene a precisare come la tradizione di San Giuseppe a Matrice abbia avuto inizio grazie alla signora Maria Diana Laurienzo, vedova Sbrocca, tramandando la tradizione del marito, originario di Casacalenda. La sua devozione era così forte e sentita tanto da chiamare il proprio figlio Giuseppe, in onore del santo.
Oltre ad essere il patrono dei falegnami e degli artigiani, San Giuseppe è considerato il protettore dei poveri, ecco perché – continua la signora Sbrocca – in casa venivano ospitate 15 persone selezionate tra le famiglie meno abbienti del paese, che rappresentavano la Sacra Famiglia e i 12 apostoli. La preparazione della festa e della tavola di San Giuseppe, conosciuta come “la Tavola di zia Angela la sciatella”, iniziava nei giorni precedenti alla festa. Le donne si recavano al panificio storico del paese – il Pane di Matrice – per sfornare pagnotte di pane da 3 kg da regalare ai quindici ospiti e anche a tutti i partecipanti alla preghiera.
Venivano poi prodotti dei dolcetti strepitosi, i panzerotti ai ceci, caratterizzati da una pasta friabile ripiena di ceci, cannella, miele e zucchero. Questa tradizione è rimasta ancora intatta all’interno del panificio Petrella Laurino alias “il Pane di Matrice” che, fin dal 1966, si è sempre distinto per qualità, cortesia e genuinità, continuando a utilizzare materie prime di eccellenza per dare vita a prodotti strepitosi, conservando e tramandando il vero sapore di una volta, il profumo e la bontà delle vecchie tradizioni. La signora ricorda con gioia quando si recava al panificio per assistere alla preparazione della “Zita”: una dolcissima e morbidissima pigna a forma di donna con le braccia poggiate sui fianchi, con due uova decorate e ricche di confetti poste al di sotto delle stesse. Questa pigna veniva poi regalata, il giorno della domenica delle palme, dalla famiglia dello sposo alla sposa – la cosiddetta zita.
La tavola era bellissima e perfettamente imbandita, nella sala troneggiava sul comò l’altare su cui veniva adagiata la statua di San Giuseppe adornata da coperte e fiori. La preparazione dei piatti veniva effettuata secondo precise consuetudini. Le tredici portate previste erano costituite prevalentemente da cibi poveri, come i legumi, e ingredienti semplici che si trovano in casa, fatta eccezione per il pesce.
Il pranzo prevedeva 13 portate: si partiva dai fagioli, ceci, piselli, cicerchie, per arrivare agli spaghetti con le acciughe seguiti da degli spaghetti più grossolani con la mollica del pane, riso con il latte, riso con il pomodoro, baccalà gratinato, misto di frittura di pesce e verdura, per terminare con frutta e dolce. Le preghiere venivano recitate prima e dopo per ringraziare San Giuseppe di quanto si è ricevuto nell’anno e per invocarne la protezione sulla famiglia e sulla comunità. Il rito aveva inizio il 17 febbraio e terminava il 19 marzo: veniva festeggiato il cosiddetto mese di San Giuseppe che iniziava con la lettura della prima e terminava con l’ultima pagina del libro del santo.